Edizione 2011: presentazione di Giovanni Tesio

Le fiabe non sono buonsite

Non occorre avere letto Propp per sapere che la fiaba è un luogo dai molti fratelli. Pollicino se li porta dietro, Hansel sta con Gretel, sempre compaiono il fratello maggiore, il mediano e il minore che vanno alla ricerca di ciò che li perde o li premia. E anche i figli di Marcovaldo sono fratelli (o sorelle). Insomma, i fratelli – le sorelle – come protagonisti e protagoniste dell’universo fiabesco. Se facciamo un piccolo salto (nemmeno tanto quantico), perché allora non provare a legare – ci siamo detti – i fratelli e le sorelle delle fiabe con i fratelli e le sorelle (d’Italia)?

La domanda è “retorica”, ma la parentesi necessaria: per non indurre in tentazione. Ossia per dire che non abbiamo voluto concedere nulla alle tentazioni di una retorica (anniversaria od obbligata) che è sempre falsa e sbagliata. Quanto siano salvifiche – in questo senso – le sorelle di Cenerentola, lo sanno coloro che non si fanno incantare dai buonismi tutto zucchero e sollucchero. E perché poi debbano essere così mal ripagate lo può spiegare soltanto la necessità di conferire al mondo l’ipocrita e stridulo ardore del premio che va meritato.

Insomma, con un po’ di provocazione, abbiamo invitato a scrivere delle fiabe che fossero fiabe e che avessero dentro – semplicemente – il tema dei fratelli (delle sorelle). E dunque anche e magari dei fratelli (o sorelle) d’Italia. Ma non questo era davvero ciò che ci importasse.

A importarci era (e resta) l’idea della “fraternità”, che non va disgiunta dalla varietà, dalla differenza, dalla diversità. Fratelli d’ogni stagione. Fratelli di sempre. Fratelli d’avventura. Fratelli rivali e persino fratelli mors tua vita mea come in quella parte di Genesi che riguarda Caino, il fratello di Abele, il fratricida che costruisce la prima città. Dice un personaggio – L’illusionista – del magnifico Caino di Mariangela Gualtieri: “Non è nel sogno/del bene il lato migliore.”

E prendo ancora da Mariangela, rubando l’esergo dal Libro dello Zohar: “Il cielo, la terra e tutti i corpi celesti si associano pure alla formazione dell’uomo. Anche gli angeli partecipano alla sua Le fiabe non sono buoniste.

Le fiabe non discendono dai cuori d’oro ma salgono dagli abissi delle nefandezze e dei crimini della nostra accidentata umanità. Vengono dai “bestioni” che ci precedono, e che noi ricapitoliamo nella nostra infanzia crudele (avete mai notato come i bambini possano essere spietati?). Le fiabe sono come sogni ad occhi aperti, fantasticherie che attingiamo ai nostri più remoti recessi: quelli a cui diamo storia e statuto attraverso i simboli di un universo infero e affollato, promiscuo.

La verità è che della fiaba abbiamo ormai fatto una convenzione. Sbagliando pensiamo che sia il luogo delle dolcezze, a volte del birignao, spesso di un’ottusa e rassicurante banalità. E ne dimentichiamo le puzze, le punte aguzze, i coltelli affilati, lo stridore di denti, gli incesti allusi, le metamorfosi evocate, le commistioni imperdonabili, le radici dionisiache, l’eros che distilla il suo segreto mortale, la gran bolgia degli imbrogli e delle passioni, delle sepolture e delle sventure, delle metamorfosi e delle commistioni. Rospi e ranocchi, topi che diventano principi consorti, serpi e bisce che si convertono in fanciulle regali, animali parlanti, volpi, bufale, marmotte, lupi-zii e babbidrago, orchi con le penne.

Ecco qua. Ecco qua che la fiaba diventa un luogo di rivelazione, una storia che svela la nostra storia impastata di tutto, il nostro stupore e le nostre paure, le nostre contraddizioni, i nostri mostri, i nostri labirinti, i nostri sotterranei, magie e macabrerie. La fiaba come luogo dell’alterità, come “va che ti va” nell’altro da sé, in cerca dei sassolini che ci riconducano alla nostra partenza. La fiaba come scienza di un infinito cercare. La fiaba come luogo delle emozioni e dei disastri, degli affetti e degli agguati, dei misteri e degli sprofondi.

Ecco qua, la natura sempre rinnovabile della fiaba a cui – bambini mai del tutto redenti, rimasti lì con le nostre malignerie e liturgie – oggi come ieri continuiamo con ostinazione – e per fortuna – a guardare.

Giovanni Tesio
Docente di letteratura italiana
Università del Piemonte Orientale “A. Avogadro”

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