Edizione 2006: Angelo Paviolo

Il tema proposto per questa edizione del Premio Nazionale per la fiaba è stato dunque il “Treno”, inserito a far da corona alle molte iniziative che la Comunità di Pont Canavese ha organizzato per ricordare il centenario dell’arrivo del primo convoglio ferroviario.
A noi è parso che il “treno” fosse in realtà un tema che per i bambini, e non solo, abbia, e soprattutto abbia avuto in tempi ancora recenti, un alone fiabesco: il primo viaggio in treno resta per un bambino un ricordo quasi indelebile, un giorno importante della propria infanzia, la scoperta di una cosa nuova e attesa.

A me piace ricordare però come la stessa invenzione che è all’origine di questo mezzo di locomozione abbia qualcosa di “fiabesco” anche nella disputa di chi sia stato realmente il suo inventore: si favoleggia spesso che sia stato George Stephenson, ma in realtà la sua locomotiva risale al 1813 ed è preceduta di una decina di anni da quella di Richard Trevithick la quale, viaggiando su una linea di 15 chilometri di rotaie di ghisa, trainò un carico di circa 25 tonnellate alla velocità di 6 chilometri all’ora.
Fu questa la prima vera locomotiva a vapore, ed era stata preceduta da numerosi modelli di altre macchine a vapore, però statiche, utilizzate nell’industria e nelle miniere.

A stretto rigor di logica per trovare i primissimi antenati della locomotiva si può anche risalire alle intuizioni e alle ricerche di scienziati dell’antica Grecia, tra cui Erone: per non farla troppo lunga è sufficiente qui arrivare alla fine del 1600 e ad un aggeggio che molti studenti hanno incontrato a scuola, nei laboratori di fisica. E che ha un nome familiare: “La pentola di Papin”.

Denis Papin era un medico (o fisico, come si chiamava allora) francese vissuto tra 1600 e 1700 che è passato alla storia proprio per avere inventato questo strumento metallico formato da due cilindri, uno di diametro leggermente minore. L’aggeggio era fornito di un focolare che riscaldava l’acqua contenuta in una vaschetta e di una valvola: l’acqua portata a ebollizione con il vapor acqueo che ne deriva, fa muovere il cilindro interno che poi, scaricando il vapore attraverso la valvola, termina la sua corsa e ritorna al punto di partenza ove altro vapor acqueo lo rimanda verso l’alto, e così via.

Merito di Papin è quello di avere posto in un unico aggeggio focolare, caldaia e parte mobile. Di avere poi sostituito il cilindro interno con uno stantuffo, di avere costruito la prima macchina a vapore e di averla applicata al primo battello a ruote che i battellieri del fiume su cui lo provò distrussero subito per paura della concorrenza.

Ma vi è un aneddoto che riguarda la sua prima prova con la “pentola”, che mi pare simpatico e istruttivo. Fiero del suo piccolo robot che ripeteva lo stesso movimento all’infinito, purché ci fosse il vapor acqueo che la alimentava, Papin presentò il suo giochino ad un amico, spirito molto pratico, che guardò quell’inutile andirivieni, scosse la testa e domandò con aria scettica:
“Ma a che cosa serve?”
La risposta di Papin fu un’altra domanda, molto efficace e più profonda:
“A che cosa serve un neonato?”
Da quell’aggeggio – neonato che egli aveva ideato e costruito nasceranno molti strumenti, come la nostra domestica pentola a pressione; ma anche la parte centrale e operativa di molti motori, atti ad azionare macchine fisse in officine meccaniche e locomotori di mezzi di trasporto.
In fondo, a ben pensarci, almeno per noi che qui ci interessiamo forse un po’ fanciullescamente di favole, questo aneddoto racchiude in sé alcuni elementi essenziali di una fiaba, soprattutto proprio per quella domanda-risposta:
“A che cosa serve un neonato?” che, come nelle fiabe, compara e mette in gioco elementi diversi e non rapportabili tra loro.

Certo sentiamo tutti che ogni bambino è molto più importante di qualsiasi invenzione, e che porta in sé il futuro dell’umanità e la realtà presente del nostro amore. Su un neonato convergono fantasie e speranza, pensieri, sogni e illusioni. Un bambino è un meraviglioso mistero, di cui sappiamo solo che ha bisogno di essere amato e protetto per quello perché non sappiamo se diverrà uno scienziato o un ministro, un temibile e sanguinario condottiero o un benefattore che modificherà il mondo con il suo esempio e la sua parola, potrà divenire un papa o un arruffapopoli, una madre indegna o una santa.

Papin guardava alla sua invenzione con la speranza realizzata che potesse avere una applicazione importante per il futuro dell’umanità mentre il suo interlocutore vedeva solo quel movimento monotono noioso e inutile. Un genitore che guarda il suo bambino appena nato vede in lui molto di più di quanto lo scienziato francese vedesse in quel suo strumento, perché in quell’esserino inerme che ha bisogno di tutto e che grida la sua fame d’amore e di cure, c’è la realtà e la sublimazione dell’amore, c’è attesa dalla fiaba della vita, nella sua miracolosa diversità, nella sua evoluzione piena di avventure e di scoperte, di gioie e di rimorsi, di tutti i sentimenti che nobilitano e travagliano la vita dell’uomo.

La pentola di Papin appariva come una cosa reale e viva. ma senz’anima e senza utilità pratica, il suo costruttore la guardava come a un figlio e forse si domandava anche lui: ma questa cosa, questo mio “figlio” servirà a qualche cosa? Mi restituirà qualcosa per tutto l’impegno che ho posto nel costruirlo? Potrò utilizzarlo per qualcosa? Mi darà delle future soddisfazioni oltre a quella immediata che mi viene dall’averla costruita così come è? Non c’è molta differenza tra lui e mastro Geppetto di fronte al suo Pinocchio appena realizzato: ambedue hanno dubbi e speranze, sentono che il loro impegno non è finito in quel momento, ma si proietta nel futuro. La scienza e la fiaba, la realtà dello scienziato e la fantasia dello scrittore sono in quel momento proiettate verso il futuro: il frutto del primo saranno macchine che modificheranno il mondo, la meta del secondo la trasformazione di un burattino di legno in un bambino.

Non poteva immaginare come i figli del suo aggeggio avrebbero rivoluzionato il mondo: le macchine a vapore della nascente industria libererà le officine dalla schiavitù dell’acqua corrente che muove le ruote delle antiche fucine e così sposterà le industrie dalla montagna ricca di torrenti e di canali ai fondovalle e alle città. Una rivoluzione nel mondo della produzione che rese necessaria la rivoluzione nel mondo dei trasporti, quindi non solo più macchine a vapore per il lavoro delle manifatture ma anche macchine semoventi, le locomotive, le strade ferrate, i battelli fluviali, i piroscafi e via via sino alla conquista del volo.
Papin non poteva certo immaginare le infinite strade che quella strana “cosa” che aveva ideato avrebbe percorso, quali avventure era destinata a vivere, quante fiabe le sarebbe occorso di narrare, quali gioie e quali dolori avrebbe trasportato da un luogo all’altro del mondo, quanti mali avrebbe sanato e quante ferite avrebbe provocato.

Perché in fondo avrebbe ispirato non solo domestiche pentole sibilanti nelle cucine ma anche potenti autoclavi per ospedali e laboratori, non solo pacifiche locomotive di treni o motori di piroscafi che uniscono le città e le nazioni ma anche carri armati che le spopolano, e gran parte degli oggetti che si muovono grazie a un motore, di quelli che emettono non più innocuo vapor acqueo o scintillanti, minuti lapilli e fumi generosi, ma gas che inquinano gli uomini e l’aria.

Una fiaba che non è ancora finita, che ancora può riservarci la sorpresa gradita di invenzioni felici o la dolorosa tragedia di nuove armi da guerra.
Anche il benefico treno è stato talora trasformato in uno strumento di morte. Ma resta soprattutto uno strumento di civiltà e di unione: porta l’uomo che va verso l’ignota avventura di un nuovo lavoro come il commerciante che cerca nuovi mercati, porta l’emigrante che non è atteso da nessuno come la ragazza che va incontro al suo uomo sorridente sulla panchina di una stazione lontana: avventure da nulla se viste da un estraneo, ma che raccolgono e mutano il destino di milioni e milioni di protagonisti, e spesso sono piccole, dolci fiabe della vita, anche se non sempre riservano il finale allegro di una favola.

Perché la realtà non ha meno fantasia della trama di una fiaba; pensiamo al treno, che, cinematografato dai fratelli Lumière e inserito in una delle prime pellicole della storia del cinema, pareva uscire dallo schermo, e terrorizzò gli ingenui spettatori che fuggirono verso l’uscita della sala. Ancor oggi un ipotetico selvaggio che, lasciato il suo piccolo paradiso naturale, si trovasse davanti un simile oggetto fumante e rumoroso senza averne mai sentito parlare, se ne terrorizzerebbe e fuggirebbe a tutta velocità verso la sua tribù, a raccontare cose strabilianti, racconterebbe, piccolo don Chisciotte di una sperduta tribù, la storia di un mostro ferrigno, spaventoso, rumoroso e pronto a spaccare tutto ed a provocare una strage.

Il treno è da oltre centocinquant’anni e resta ancor oggi uno dei simboli più alti della civiltà umana e delle conquiste pacifiche dello spazio e del tempo.
E rimane una popolare e infantile creatura, fiabesca e reale, amata dai bambini e da chi anche con il passar degli anni, ha la fortuna di essere rimasto almeno un poco tale.

Ridotto a miniatura il trenino è un giocattolo che i bambini hanno sempre amato, e amano ancor oggi, anche se oggi forse interessa ancor più molti adulti che con arte e passione costruiscono nelle loro case incredibili e preziose strutture di linee ferrate in cui treni miniaturizzati d’ogni tipo che in sé raccolgono la storia delle ferrovie nel mondo, attraversano campagne e gallerie, sostano ai semafori per dare la precedenza a un loro fratello più frettoloso, sostano nelle stazioni ricostruite identiche, in formato minimo, come quelle delle metropoli, segnalano con un fischio il loro arrivo e la loro partenza. Ripercorrono la storia reale dei treni che hanno superato i confini dei popoli, le catene montuose più impervie, hanno attraversato i canali marini su navi costruite apposta per loro, o su ponti arditissimi o in gallerie sottomarine; hanno ispirato poeti e scrittori, raccontano storie di delitti in famosi libri gialli, avventure vissute in resoconti di viaggi , dolcissime storie d’amore nei romanzi romantici.

Credo che anche i bambini di oggi abituati forse alla lussuosa auto del padre, vedano e sentano l’attrazione del treno.
Nelle metropoli, sui sovrappassi che ormai sono in gran parte scomparsi, non mancavano mai nonni con i nipotini che si entusiasmavano al passaggio delle vaporiere; e nelle campagna i bambini che accompagnavano i genitori sul lavoro, salutavano festosi i treni che passavano, mentre molti viaggiatori rispondevano sorridendo al saluto. Certo i bambini sognavano di essere sul quel treno, e probabilmente molti viaggiatori di essere ancora bambini, nel verde di quel prato, a salutare, con l’ingenuità nel cuore, la fortunata gente che correva chissà dove.

Forse oggi succede più di rado: ma quando succede certamente il bambino sul prato e il viaggiatore sul treno in quel momento si raccontano una fiaba, diversa certo. Perché vi è chi la pone nel proprio futuro ignoto e chi la colloca nel proprio passato, dolce e sognante, che non tornerà mai più.
Tutto merito, in fondo, di quell’aggeggio strano costruito tre secoli fa da un medico francese, di quel “bambino” che ha fatto tanta strada, e continua a farne, e fa sognare tutti, senza distinzione di età.

Angelo Paviolo

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