Angilin e le masche

Nei tempi in cui l’alpe del Tòino era al suo massimo splendore, i villeggianti salivano a farsi servire dai malgari  la polenta con la panna e il latte fresco. Il posto valeva il sudore della camminata. Arrivati, la vista si perdeva sulla pianura fino alle colline oltre Torino e declinava su entrambi i fondovalle laterali. I prati formavano un ampio dosso, quasi pianeggiante, al centro del quale, su un cumulo di pietre a secco alto come un uomo, era piantata una grande croce di legno che si stagliava nel cielo davanti al Roc del Granè. Questo era una roccia nera, cosparsa di muschio e rari arbusti, situata sul fianco dei prati, da dove copriva una parte della visuale verso la valle di Lemie. La sua forma, da cui prendeva il nome, ricordava un grosso pagliaio. Che il Granè fosse un ritrovo di masche era saputo da tutti, e nessuno si sognava di metterlo in dubbio. O meglio, qualche ragazzaccio ci rideva sopra ma di nascosto, senza farsi vedere dalle comari e soprattutto da Angilin, che lei la croce la piantava sul cumulo ogni primavera, quando saliva all’alpe e la toglieva in autunno, quando scendeva per svernare alla Trichera. Un rito giunto a lei dalla notte dei tempi, tramandato da generazione in generazione dalle sue antenate.

Angilin faceva le cose per bene, non si limitava a piantare la croce e basta. Quella era una funzione che andava officiata con solennità da sacerdotessa, così dopo aver fissato, con l’aiuto di qualche uomo, la pesante croce sul cumulo, pronunciava rivolta verso il Granè, la formula di interdizione con la quale confinava le masche sulla roccia oltre la croce:  “Adesso voi state lì dalla vostra parte  e non uscite perché da questa parte stiamo noi.” Stabiliti i confini tra il domestico e il selvatico, tra il conosciuto e l’immaginato, tra le fedeli a Cristo e le fedeli all’Anticristo, Angilin, fiduciosa tornava alle sue incombenze dell’alpe e alle masche non ci pensava più, fino all’autunno, quando, con la stessa solennità con cui aveva piantato la croce sul cumulo, la sfilava per farla riporre al riparo dalle intemperie e liberava le masche da ogni vincolo di confine: “ Adesso potete scendere e andare dove volete”.

Non diciamo che il confine di Angilin fosse tra il bene e il male perché le masche non erano completamente malvagie. Erano donne dai poteri particolari che usavano solo di notte e di nascosto, erano molto dispettose questo sì, e pure vendicative, potevano trasferirsi immediatamente da un posto all’altro, anche lontano, raggomitolandosi su se stesse, potevano far inacidire il latte, far ammalare animali o bambini ma i loro malefici erano rimediabili con i giusti esorcismi. Amavano anche adescare gli uomini che rientravano a casa a tarda notte, in genere sotto forma di insistenti rovi che agganciavano ripetutamente il malcapitato per la giacca. Ma se costui era deciso e, con un colpo di falcetto sul rovo faceva cessare l’incantesimo, al mattino qualche donna del villaggio usciva dalla stalla con la mano fasciata. Le case era meglio proteggerle con delle pietre bianche sul tetto dei comignoli e dietro le porte appendere due falcetti incrociati per non farle entrare.

Le masche, ogni venerdì a mezzanotte, si radunavano e partivano per  i sabba che si svolgevano in pochi posti prestabiliti. Nel sabba cucinavano cibi senza sale, bevevano abbondante vino e, infine, inebriate, ballavano la “corenta”. Qualcuno poteva anche essere invitato a partecipare al sabba ma doveva mangiare il cibo insipido senza protestare, altrimenti le masche lo cacciavano a bastonate. Questo è ciò che si poteva dire, poi c’era il non detto, ciò che ognuno immaginava. Si diceva che le masche che si radunavano sul Roc del Granè fossero le più spregiudicate. Loro, al venerdì notte, volavano dal Roc del Granè al grande faggio che svettava sopra la Barma e lì la più vecchia cominciava a chiedere gridando: “ J soma tute?”No! a-j manca Betina” Arrivata Betina ricominciava: “ J soma tute?” “ No a-j manca Mariòta!” Così via finché all’ultimo “ J soma tute? “ Siii!!!” E la vecchia: “ A-j manca mach pi al Gran Mascon!” E, a quell’invocazione, un fulmine squarciava la notte lasciando una nuvola di fumo e un acre odore di zolfo da cui, elegante nel suo frac e  mantello nero, emergeva il Gran Mascon. Allora il grande faggio si accendeva di mille luci e si trasformava in una scintillante carrozza che a gran velocità volava nel cielo notturno. E che festa! Quanto cibo, quanto vino, quanti balli, e non solo “corente”! uno se lo poteva immaginare. Però le masche prima del mattino rientravano e, piuttosto stanche ma soddisfatte, ritornavano alle loro usuali faccende settimanali.

Per le masche il problema più grosso era morire. Quando erano in agonia dovevano essere aiutate. Se una donna tendeva la mano alla moribonda, riceveva i poteri magici e diventava masca a sua volta, lasciando che l’altra morisse come una comune mortale. Se invece nessuna donna voleva darle  la mano, la masca chiedeva una scopa, in subordine andava bene anche uno scopino, e con quello tra le mani diceva: “Scopa scopetta portami dove devo andare!”  E, in un attimo, spariva per il camino con una scia di scintille.

Morti  Angilin e il marito Giulieto, al Tòino per anni salì ancora il figlio Gioanin, ma i tempi non erano più quelli. La montagna si stava spopolando, i turisti non salivano più a mangiare la polenta, la vecchia croce non venne più tolta dal cumulo e rimase là, inutile sotto il cielo a deperire alle intemperie. Nei primi anni settanta era ancora in piedi, grigia e nodosa come una vecchia montanara, poi cadde a marcire nell’erba dell’alpe abbandonata.

Il cumulo di pietre, pur parzialmente crollato, è ancora ben evidente e, di tanto in tanto, qualche pastore che sale con le sue pecore, vi pianta sopra due bastoni legati a croce, ma quel simulacro alle masche non interessa. D’altronde anche loro se ne sono andate arrabbiate e indispettite, dopo che i boscaioli della Barma avevano sacrilegamente abbattuto il loro grande faggio e dopo che sconsolate entravano e uscivano dalle case vuote, con gli usci che, senza più falcetti, sbattevano al vento di tramontana.

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