Edizione 2004: presentazione Angelo Paviolo

Nei miei ricordi di tanti anni fa – almeno quaranta – è una ninna nanna dello spazzacamino che era cantata da Renato Rascel e si trovava in un disco di canzoni natalizie. Era una canzoncina dolce e serena, forse preceduta da una introduzione recitata di cui non ricordo nulla. Ma la sua musica con parte delle parole, forse perché i miei due figlioli amavano cantarla, è rimasta almeno in parte nella memoria, pur giustificatamente stanca di anni e che di tanto in tanto perde qualche colpo.

“C’è un piccolo piccolo spazzacamin – che vola nel cielo turchin: – sospinto dal vento va a lucidar – le punte alla Stella Polar. – Poi prende dal cielo una nuvola d’or- e spolvera l’Orsa Maggior, – e spazza e ramazza le vie del ciel – trapunte di mille gioiel. – La luna ch’era troppo bruna – va a sciacquare in riva al mar, – dal vento in mezzo al firmamento la farà asciugar ( E qui la memoria ha un vuoto, e salta di colpo al finalino) – E’ un piccolo piccolo spazzacamin – che vola nel cielo turchin: – dormite, bambini, c’è lui lassù – che fa da staffetta a Gesù”.

Oltre che per avere scritto, nel 1987, un libro, commissionato ed edito dalla Comunità Montana Valle Orco e Soana sugli “spacia fornel” della Valle Orco, fu forse il ricordo di quella canzoncina – che è assieme ninna nanna, poesia, fiaba, dolcezza e nostalgia di Natale – che mi fece esprimere al gruppo organizzatore del concorso il tema dello Spazzacamino ; la proposta fu accolta con entusiasmo.

Ma tale appoggio aveva anche un’altra base, quella di un ricordo più antico, della mia infanzia, e cioè di settant’anni fa: il ricordo di un uomo nero e di un bambino nero , che giravano, gridando uno dei tanti richiami di allora, per le strade della mia Cuneo, in un inverno nevoso.

Io li guardai con occhi spalancati e turbati, mentre stringevo più forte, nella mia piccola mano, cercando sicurezza e protezione, la mano di mia mamma. La quale sentì il mio turbamento, e mi rassicurò parlandomi del lavoro, duro e prezioso, che quella strana coppia nera proponeva di svolgere.

Per me quell’uomo grande e grosso continuò ad essere un uomo nero , nel senso negativo del termine, mentre il bambino riceveva la mia solidarietà, egoista e presuntuosa anche, di bambino fortunato che, nel caldo del suo letto, e per alcune sere – specialmente quando era più freddo o quando nevicava (perché allora nevicava di più, e a Cuneo anche ora gli inverni sono di norma piuttosto nevosi) – rivolgeva un pensiero a quell’amico sconosciuto che girava per il mondo gridando, nei paesi e nelle città, lo stesso, cantilenante richiamo.

Quando, per preparare il libro cui accennavo, andai a intervistare uomini poco più che miei coetanei, che avevano fatto il gògn di spazzacamini locanesi, pensavo che ogni mio interlocutore poteva forse essere stato il bambino incontrato a Cuneo: uno di essi, parlando della sua itineranza, mi disse di essere stato a Cuneo, di lì nel Monregalese, poi a Ceva, a Garessio e quindi di avere passato un mese ad arrampicarsi nei camini di paesi dell’entroterra ligure. Un’itineranza organizzata così, appositamente per sfuggire, almeno in parte, alle nevicate e ai freddi dell’area piemontese. Ma non poteva essere lui: non ricordava, non aveva vissuto la neve di Cuneo. Se no quell’incontro di un attimo di due bambini e questo colloquio sereno di due uomini, avrebbero costituito una bella storia umana, che in qualche modo, comunque, c’è stata. Perché in quegli uomini, tutti, che incontrai e che mi raccontavano della loro battaglia contro la fuliggine dei camini, io riconoscevo il bambino nero della mia infanzia lontana, dei miei pensieri serali, che erano, senza che lo sapessi, una forma di preghiera.

Molto di queste cose appare in realtà in alcune delle fiabe, e anche nei racconti, che sono stati inviati per concorrere a questo Terzo Premio Letterario Nazionale “Enrico Trione – Una fiaba per la montagna”.

Talora non si tratta di vere fiabe, non di rado la tecnica vera del piccolo spazzacamino non corrisponde, per esempio, a quella reale seguita dal bambino che non scendeva nel camino, e invece vi si arrampicava. Ma ciò non toglie che siano composizioni interessanti, anche quando non sono vere e proprie fiabe nel senso tradizionale: ma lo diventano nel personaggio che dà loro vita. Perché comunque lo spazzacamino è una fiaba, anche molto triste, ma quasi sempre con una bella conclusione, pur se diventa l’esempio di una ingiustizia sociale, di una violenza sull’infanzia che pare incredibile si sia perpetrata sino alla metà del secolo scorso.

Una violenza che trovava spazio sia nei racconti romantici e retorici tipici di quei tempi, sia nelle denunce politiche di uomini come Turati, ma che è stata ignorata dai più, e purtroppo anche dalla scuola, e anche dalle scuole delle nostre aree pedemontane.

In esse, quando capitava di accennare allo sfruttamento della manodopera infantile, si diceva dei bambini calati in cunicoli delle miniere inglesi di carbone, ma ben di rado dei bambini italiani infilati nel buio fuligginoso dei camini: come se le loro sofferenze fossero appartenute al mondo degli elfi e degli gnomi, fossero vicende di personaggi fiabeschi, non di bambini reali.

I bambini inglesi erano già stati difesi e liberati da decenni, quando quelli italiani – anche di soli sei, – sette anni – venivano ancora strappati dalle loro case, dalle loro famiglie, dalle loro scuole.

In queste scuole dove non si doveva parlare di loro: i vent’anni di dittatura sono stati anche questo perpetrarsi di un’ingiustizia silenziosa, di una violenza dura ancora presenti ma di cui giustamente ci si vergognava e che pilatescamente era tollerata. Un’ingiustizia che certo era figlia della democrazia liberale, la quale altrove era riuscita, ben prima che da noi, a interrompere il tempo di questo obbrobrioso sfruttamento.

Forse, non solo per disposizione superiore ma anche per inconscia pietà di patria o per assoluzione generazionale la scuola ha preferito, per tanto tempo, parlare dei piccoli minatori inglesi, non dei piccoli spazzacamini italiani.

Forse anche perché i gògn divenuti uomini, nella loro saggezza alpina, ne raccontavano sorridendo, come d’altronde fanno tutti i vecchi, che si compiacciono di raccontare le loro avventure di guerra, le loro sofferenze di emigranti, le loro fatiche incredibili, ma paiono quasi averne una specie di nostalgia che non è certo rimpianto di quegli orrori, ma solo di una giovinezza perduta e tradita.

Allo stesso modo gli anziani spazzacamini, quando mi raccontavano sorridendo della loro infanzia, parevano evidenziare una certa nostalgia e quasi ne ignoravano le brutture, infiorando il ricordo di un sorriso, raccontando di qualche raro momento dolce, sereno, di riposo e di gioco: il prete del loro oratorio torinese, il sorriso di un passante, il regalo di un quadratino di cioccolata, una minestra calda offerta in una famiglia, una mancia data di nascosto, la pietà commossa di una donna sconosciuta, la coppia straniera che chiede al bambino di farsi fotografare con loro, perché il piccolo spazzacamino porta fortuna… e il ritorno a casa, l’abbraccio consolatorio della mamma, la gratitudine del padre, i pochi giorni di scuola, l’estate a fare il garzone di un margaro, sui pascoli della montagna. Cancellando dal ricordo tutto il resto per non morire soffocato non dalla fuliggine del camino, ma dall’odio verso un mondo ingiusto, e per potere continuare ad amare e a credere e a sperare nell’umanità.

Quella dello spazzacamino è sotto alcuni aspetti una fiaba, certo, ma anche un dramma vero che appartiene in particolare alla storia e alla realtà di alcune nostre vallate alpine, ma anche alla storia e alla realtà di tutti: la violenza perpetrata contro quell’essere indifeso, che si infilava nel camino e, tra la polvere nera che lo avvolgeva, vedeva lassù, lontano, al termine della sua fatica, il sereno del cielo e la luce del sole, in qualche modo simboleggia il cammino dell’umanità che sempre, come Goethe morente, anela alla luce e al sole. Ma può anche essere intesa come il simbolo di tutti coloro che, ancora oggi, vittime delle violenze e dei soprusi, non hanno nessuno che ascolti la loro voce, l’urlo disperato contro le ingiustizie e le violenze, il loro pianto nel deserto dell’indifferenza dei popoli ricchi e potenti. Sono anche, i nostri piccoli spazzacamini un anello della storia, di quella scritta con tanti altri bambini, i piccoli minatori inglesi e gli innocenti abbracciati alle loro mamme e destinati ad attraversare, come fumo che va a disperdersi nel vento, i camini del lagher tedeschi, fino ai milioni di bambini di oggi violentati dalle guerre internazionali o mandati a uccidere ed a morire nelle lotte tribali, o fatti schiavi per essere venduti dai mercanti di carne umana che ne fanno turpe commercio di lussurie o di trapianti, e a quelli affamati fin dal concepimento, o uccisi da malattie che noi potremmo debellare con nostre piccole rinunce, ma contro cui nulla facciamo, noi figli di nazioni troppo ricche per essere anche pietose se non nei momenti più tragici, quando il terrorismo fanatico fa dei bambini un bersaglio preferito delle loro bombe o un ostaggio crudele per le sue rivendicazioni.

Non dimentichiamoli, anche se tra noi ci sono tanti bambini fortunati, come quelli che hanno madri e padri che inventano e scrivono per loro fiabe, e nonni che le raccontano ai nipoti.

E assieme a questi genitori così dolci, ci sono i santi, più di quanti crediamo, uomini e donne preziosi che, di qualunque religione siano figli, a qualunque etnia appartengano, in qualunque corrente politica credano, qualunque mestiere esercitino, conservano nel cuore pulito e nella mente incontaminata un poco della loro favolosa innocenza, e, umili e silenziosi, hanno come uniche armi la loro fede nella vittoria in una strenua lotta condotta nel nome e con la forza dell’amore e della pace.

Essi illuminano l’umanità e regalano una speranza per il domani; sono la più bella realtà e scrivono ogni giorno, nel silenzio e nel sacrificio, la più bella fiaba del mondo.

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.