Edizione 2009: presentazione di Giovanni Tesio

La fiaba ovvero “il dono pericoloso e stupendo dei contenuti segreti”

Torri, castelli, ponti, mura merlate sono da sempre – con boschi, foreste, pianure, alture – le coordinate di un mondo di fiaba, la gran baldanza del va che ti va, va che ti va; che è poi, come diceva Cristina Campo, il “rebus dei limiti illimitati”: l’iterazione che è già di per sé favolosa, allargando gli spazi, dilatando i tempi, risuonando nel cavo dell’illusione e nel cuore dei ritorni, che sono sempre ritorni al luogo da cui non si è mai veramente partiti, il luogo di quell’infanzia in cui non abbiamo mai smesso di abitare.

Per non dire dei tanti corollari, a cui la fiaba – ogni fiaba – si alimenta: dalla “qualità magnetica degli oggetti” agli “orditi di corrispondenze”, dai “loci absconditi” agli “horti conclusi”, dalle quattro sfingi sorelle di cui si nutre la poesia (ossia “memoria, sogno, paesaggio, tradizione”) alla “massima profondità” nella “massima superficie”, dal “dono pericoloso e stupendo dei contenuti segreti” alla paura che si congiunge a bellezza, delle metamorfosi che trasformano l’essere nelle forme cangianti di una ricerca di pienezza, di speranza dell’intero (ossia il valore del simbolo, della sua necessità di congiunzione): “diversità dell’identico”, dice bene Mario Lavagetto per quel prodigio del Cunto delli cunti del Basile.

La fiaba è mistero. È finzione di verità. È verità di finzione. Ma è soprattutto gioia di narrare, eco di un’oralità remota, arcaica, antica. Nella fiaba si annidano i residui di una nonna che racconta ai nipoti a cui consegna un pezzo del senso della vita: non una saggezza moralistica, ma un’estrosa re-invenzione del mondo, di una sapienza che dice se stessa nel suo stesso farsi. Come accade con i sogni, con la religione, con i miti. Ma nella fiaba – più che in ogni altra manifestazione d’arte – rimangono attivi i segnali di una vicenda che si racconta o ci si racconta. Come a teatro.
Il narratore non può fare a meno di andare in cerca del suo ascoltatore o di sdoppiarsi raccontando al se stesso bambino la magia che lo attanaglia al tempo della sua paura (che altro poi non è se non ricerca di definizione). Ecco perché la fiaba è così apparentemente effusa e così intimamente esatta. Come un meccanismo a scatto, prevedibile e tuttavia sorprendente: capacità di imprigionare nelle forme la realtà, chiudendola in un reticolo trasparente.

L’iterazione, dicevo, è la sua forza, perché è la coscienza del suo (e nostro) bisogno di regola: il conforto di un mondo che sa chiudersi e aprirsi al ritmo di un incanto arcano, ma costantemente vigile. Come sognare da svegli. Dicevo anche di torri, castelli, ponti e mura merlate. È la scenografia dei romanzi medioevali, da Lancillotto a Ivano, da Perceval a Cliges di Chrétien, cavalieri erranti che vanno in cerca del loro destino d’amore e d’avventura.

Ma se solo sottraiamo alla diversità dei tempi il necessario margine di attualità, quell’armamentario rimane attivo, specie in una terra – come quella canavesana – ricca di tracce e di vestigia (ne colgo l’autunnale e inopinata testimonianza nell’edizione recente di un testo per specialisti, Le livre du Chevalier Errant di Tommaso III di Saluzzo, in cui il Canavese è appunto descritto come “un paese/ Ricco di ogni delizia,/ Dove il Dio d’Amore ha la sua dimora”).
Ben finita l’età romantica e post-romantica dei recuperi neogotici (anche quello il sogno di un ritorno d’antico), attraverso la suggestione di torri e castelli le fiabe di oggi continuano a cercarsi – come sempre – nella fiaba di sempre: nel grande – e rinnovabile – “fabulare” d’antan.

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