IL SOFFIO DELLA MORTE

Era il 19 aprile di circa trent’anni fa. L’anno non lo ricordo con precisione ma il giorno sì. È stato il giorno in cui la morte mi è passata vicino.

Salivo in una mattina serena, con la luce radente del primo sole, quel pendio che da tempo mi ero proposto di scalare. Un ampio dosso, come la schiena di un uomo seduto che guarda per terra, che s’innalza per un dislivello di circa cinquecento metri, situato a destra del vallone di Pian Lunella, quasi in faccia a Margone. Da lì poi una cresta di roccia continua per formare Punta ‘d Gnà, Punta della Nonna, in dialetto di Usseglio. L’amico, che era salito la settimana prima, mi aveva parlato di una discesa impegnativa ma non troppo difficile. E così eccomi lì a spingere in salita gli sci, con i “coltelli” montati per aggredire la neve gelata e sulla faccia la brezza del mattino. La pendenza era continua, richiedeva concentrazione ma non mi preoccupava. Poi, raggiunta la parte alta, già illuminata dal sole, il dosso si ammorbidiva in un pendio quasi dolce.

In punta mi godetti il tepore del sole, aspettando alcuni minuti che anche la neve si sgelasse. Il primo tratto di discesa fu una meraviglia sulla neve ideale ma quando entrai nella parte più ripida la neve era ancora dura, procedevo a curve strette alzando le code degli sci per caricare sulle punte e non farli derapare. Ogni tanto mi fermavo a prendere fiato e, proprio a una di queste soste, ormai oltre la metà della discesa, sentii la scossa secca della neve tremare sotto gli sci con un rombo cupo, basso, ovattato. Mi voltai a guardare verso l’alto, grandi zolle di neve, spesse più di una spanna si accavallavano una sull’altra, iniziando a precipitare a valle. Il fronte della slavina,apertosi là dove cambiava la pendenza, attraversava tutta la montagna. Ero senza scampo! Pochi secondi e sarei stato travolto. Ne ero perfettamente consapevole. Una settimana prima, in Val d’Aosta un maestro di sci era stato travolto dopo aver sciato per un chilometro davanti alla valanga. Nessuno riesce a sciare più veloce della valanga che cade! Non di meno mi buttai in discesa, con gli sci leggermente divaricati, cercando di assecondare le asperità del terreno per non cadere e tenere la massima velocità di cui ero capace. Nella mia mente il tempo scorreva al rallentatore e i pensieri si susseguivano lucidissimi: adesso mi travolge, l’urto mi butterà a faccia avanti. Riuscirò a liberarmi dei bastoncini e a portarmi le mani davanti al naso e alla bocca? Se riesco mi butto all’indietro, cerco di sedermi sulla neve, magari riesco a tenere la testa fuori, ma sarà quasi impossibile, verrò fatto rotolare assieme agli sci. Cercavo di stare in centro al dosso per evitare di essere trascinato nei burroni laterali e intanto evitavo i primi cespugli bassi che cominciavo a incontrare. Ma perché non mi travolge ancora? Eccola, arriva! La cascata di neve mi passò sulla destra a pochi metri sprofondando nel burrone a una velocità impressionante, con un ruggito e un vento freddo di morte che portava una nuvola di polvere bianca che mi avvolse. Più in là, sulla mia sinistra, cadeva l’altra cascata. Fu un attimo e tornò il silenzio. Mi fermai su un pianoro a pochi metri davanti a me, ormai ero quasi al fondo. Tremavo ancora, e non solo per il vento freddo.

Ero illeso! e mi pareva un miracolo. Continuai a scendere con gli sci ma sciavo adagio, attraversai il bosco di faggi con la testa confusa finché la neve finì e trovai i prati, allora caricai gli sci sullo zaino e mi avviai alle case di Traverset, oltre il torrente. Adesso mi trovavo in faccia alla mia montagna, posai lo zaino con gli sci e mi adagiai sul prato coperto dai primi fiori a guardarla. Si vedeva bene la placca da dove la neve si era staccata, il percorso della slavina e dove il dosso l’aveva divisa in due parti facendola cadere nei burroni laterali, salvandomi la vita. Improvvisamente balzai in piedi, lanciai un urlo liberatorio contro la valanga assassina che non ce l’aveva fatta a prendermi, poi mi ridistesi, la botta di adrenalina mi stava passando. Erano belli i fiori del prato sulla terra umida, erano belle le nuvole bianche nel cielo. Era una serena giornata di primavera e sarebbe stata così bella e indifferente anche se io fossi stato là sepolto sotto la neve. Ma io ero vivo. Avrei continuato a giocare col mio bambino, lui e sua madre non avrebbero avuto la vita distrutta dal dolore, non avrebbero pianto straziati la mia morte. Questi pensieri sono il dolore più grande che si prova davanti alla morte. Si muore con un senso di colpa per il dolore che si arreca alle persone care. La solitudine rende triste la vita ma lascia più liberi di andare incontro a Caterina dalle costole magre.

Dopo mezz’ora mi alzai, bevvi l’ultimo sorso di tè dalla borraccia, poi, caricatomi lo zaino, raggiunsi la macchina camminando come sulle note di una musica allegra e tornai a casa senza dir niente a nessuno.

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