Edizione 2003: presentazione Angelo Paviolo

Per una svista tipografica nostra, quello che doveva essere un invito, o forse una proposta o un’ipotesi, è divenuto nel bando un obbligo: e giustamente i concorrenti ad esso si sono conformati. Mi riferisco al tema “l’Alpino”, che voleva essere un suggerimento per indicare un argomento che era stato trascurato dai concorrenti della prima edizione di questo concorso, mentre ci pareva importante per la montagna sotto molti aspetti, storici ed umani.

Uno di questi aspetti è indubbiamento quello che ricordiamo, di racconti ascoltati da vecchi alpini che avevano conquistato il Montenero o erano reduci dalla Russia, che a ripensarli oggi ci paiono sempre più reali ma anche soffusi di una certa fantasia affabulatoria che arricchiva queste memorie sublimando una realtà delle cose, umanizzando anche la tragica disumanità della guerra: una fantasia sempre generosa e bella che si estendeva al ricordo delle grandi tragedie nazionali del tempo di pace – il terremoto di Messina, le valanghe che coprono intere borgate alpine, le alluvioni che straziano le pianure – con gli Alpini sempre in prima fila, loro abituati al passo lento del montanaro che sanno però accorrere anche senza un ordine dall’alto, nel momento e sul luogo del bisogno. Quegli Alpini che sono stati e sono tuttora le migliori truppe specializzate per interventi in montagna, che hanno osato e superato l’impossibile, che hanno dimostrato capacità, efficienza, buon senso, umanità anche quando vi è stato bisogno di loro per gestire la pace in territori da sempre travagliati dalla guerra.

Per questo, e per mille altri motivi, gli Alpini, senza nulla togliere agli altri corpi militari, hanno qualcosa in più, un qualcosa di favoloso, che fa dei loro raduni una festa delle comunità, una gioia collettiva, una piccola grande fiaba che nasce dalla realtà delle loro gesta e delle nostre genti. Nella loro umile dedizione, senza volerlo essi sono divenuti qualcosa che raggiunge forme di epicità in cui qualcosa di magico li coinvolge e li arricchisce, pur conservando l’essenza delle loro avventure vissute ma che il tempo che trascorre fa divenire fiaba ad ogni passaggio dal nonno al nipote, si modifica nelle ore di veglia di stalla in stalla, si arricchisce di bocca in bocca, fa un tutt’uno di realtà e di fantasia.

Così, il mondo già di per sè magico della montagna si impreziosisce di avventure diverse e di nuove presenze, trasmigra attraverso le generazioni, si entusiasma nella fantasia dei giovani, si realizza nel ragazzo che non ha mai lasciato le sue montagne ma che è chiamato ad allontanarsene, per divenire Alpino, con una divisa e un cappello dalla penna nera, un ragazzo che verrà restituito, quando verrà restituito, al suo mondo, al suo paese, alla sua famiglia con la ricchezza di una maturità e di una esperienza indelebili. Sarà per sempre, in qualcosa di speciale che è nascosto in lui, un Alpino.

Egli diviene protagonista di qualcosa di vero, che è veramente accaduto, ma anche di qualcosa di magico, che è difficile da distinguere e da distaccare: è lì che la realtà si traforma in fiaba e la fiaba diviene realtà.

Questo era lo scopo di un suggerimento che noi intendevamo solo proporre e che voi avete fortunatamente sentito come imposizione. Fortunatamente perché il risultato è stato del tutto positivo. Certo, e non poteva essere altrimenti, il numero del lavori che sono pervenuti alla segreteria del concorso ha subito una diminuzione, tuttavia non molto sensibile e non molto significativa. Ma il tema è stato quasi sempre trattato con una delicatezza e un fascino tali da confermare l’importanza che ha, nel vissuto e nel cuore della nostra gente, questa favola giovane, diciamo, sotto molti aspetti, moderna, che è l’Alpino, ufficializzata dalla legge meno di centocinquant’anni fa, ma che sembra antica come la montagna stessa, e pare appartenere a ricordi ancestrali tanto in essa si confondono realtà e fantasie.

Pur inserendo una traccia preferenziale, ritorneremo nelle prossime edizioni a quella piena libertà lasciata, nel grande tema della montagna, ad ogni concorrente: ma quest’esperienza “alpina”, se vogliamo, questo errore di stampa, ci hanno regalato qualcosa di prezioso, anche se certamente non inatteso. Un regalo che giunge proprio in questi anni in cui scompaiono dalla nostra terra e dalle nostre valli, come forse è giusto che sia anche se doloroso e mutilante, le gloriose divisioni, che avevano il nome delle nostre città ed avevano l’orgoglio di designarne i battaglioni con i nomi dei nostri paesi, delle nostre valli, delle nostre montagne.

Questa iniziativa editoriale viene proprio a ridosso degli anni in cui sono scomparse le salmerie, quelle che erano nella storia e nella leggenda alpina che non poteva fare a meno del conducente e del suo mulo, ambedue testardi ed eroici, e proprio quando l’esercito da realtà obbligatoria per tutti si veste del nuovo sistema del militare volontario e si trasforma in una nuova, per noi inconsueta ma senza dubbio necessaria professionalità.

La risposta dei concorrenti ad un concorso che si intitola agli Alpini del passato lontano o vicino, ci dice, con nostalgia, che “quell’alpino” è veramente leggenda, è sempre più un momento mitico della nostra vicenda non tanto nazionale quanto popolare.

Anche quella piccola cosa che è il nostro concorso serve in qualche modo a consegnare la lunga e gloriosa parentesi dei “veci” al grande patrimonio folcloristico di una gente montanara che sta scomparendo dalle borgate isolate, che ha spopolato le valli, che non vedrà più, per fortuna la cartolina di richiamo alle armi che, il giorno stesso dell’inizio della guerra, il 24 maggio 1915, giunge al soldato Perucca Battista di Domenico, che ha 35 anni e deve lasciare tutto, per difendere una patria che si ricorda di lui per mandarlo a uccidere e a farsi uccidere nelle trincee del grande conflitto europeo. Chissà se di lui qualcuno si ricorda, se sa quale era la sua casa di borgata San Donato, vicino al Bottegotto di Locana o se il suo ricordo è affidato a questo pezzo di carta, gelosamente conservato nell’archivio di un amico di Pont.

Ringraziamo in modo particolare i concorrenti: forse vecchi alpini, o loro figli e nipoti e pronipoti, o anche gente, uomini e donne, affascinati da un mito e da una fiaba. Un grazie particolare alle insegnanti e ai bambini delle elementari. Non lo sanno, ma tutti assieme hanno fatto qualcosa di importante: non hanno assistito passivamente alla chiusura di un ciclo della nostra storia, ma hanno arricchito con un poco di fantasia le pagine tragiche di lontani avvenimenti bellici e quelle faticose di una lotta contro la morte quando un dramma ha richiesto la loro presenza; non per mandarli all’assalto di montagne imprendibili sotto il fuoco impietoso di altri eserciti, ma perché contribuissero a opere di soccorso e di solidarietà, dimostrando ovunque di che pasta sono formati gli uomini della nostra terra.

Terra non solo di montanari assuefatti ai geli e alle bufere, capaci di “arrangiarsi” in ogni occasione: ma intelligenze e cuori disponibili a lenire sofferenze, a curare i mali del mondo. a portare una parola di conforto là dove è solo paura, una parola di pace là dove si conoscono solo le voci dell’odio.

Così hanno fatto generazioni di alpini “arruolati” come Battista Perucca: ora le vecchie generazioni stanno per passare le loro gloriose bandiere ad alpini “volontari”. Certo risuoneranno dialetti diversi, e non si ritroveranno riuniti in un’unica compagnia veci e bòcia delle stesse valli e degli stessi paesi. Molti nomi scompariranno: non ci sarà nessun gruppo che si chiamerà Levanne o Dronero, né ci saranno alpini che al momento dell’ordine di sciogliere le righe grideranno “tuicc-un” nel ricordo di una antica ribellione contadina del Canavese.

Perché le cose cambiano e i popoli si mescolano, come è giusto che sia.

Molte cose, anche molti ricordi, si perderanno. Ma non tutti. Quello che rimane è la sostanza arrichita da un po’ di fantasia, la storia fatta mito, la ricchezza lontana della memoria.

Questo libro, senza che noi ce ne accorgiamo, è una parte piccola di un monumento ideale, non inciso nel marmo prezioso, ma solo uno spezzone di roccia, forse piccolo. Uno di quelli che i nostri alpini, che sapevano costruire con le pietre raccolte per ripurire i pascoli, ma scelte una per una, quei muri capaci di resistere alle bufere e alle alluvioni, sostenere terrazzamenti e strade, essere in qualche modo il monumento povero e prezioso di una grande civiltà e di una straordinaria sapienza, utile per tutti, anche per coloro che verranno.

Un muro vivo e solido che ha bisogno, per resistere non di cemento ma di una sapienza costruttiva e anche di quella umile scheggia di pietra che noi siamo fieri di offrire, perché si incunei ad aiutare e sostenere una costruzione, capace di resistere alle bufere e al tempo, come è dei miti e delle fiabe.

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