Innanzitutto cos’è il momento magico? E’ quell’insieme di situazioni, sensazioni, stati d’animo, una specie di sublimazione di benessere psico-fisico che ti permette di raggiungere un certo traguardo che non ti saresti mai aspettato di ottenere così facilmente e semplicemente. E’ proprio quello che è accaduto a me nel corso delle Olimpiadi di Roma.
Sapevo di avere quasi la certezza di arrivare alla finale ma l’idea di vincere, anche se in ognuno di noi alberga sempre una buona dose di utopia, era lontanissima dalle mie previsioni. Invece il 3 settembre del 1960, tipica giornata romana ricca di colore e di calore (sia umano che atmosferico!) mi ha fatto vivere 2 ore (l’intervallo tra la semifinale e la finale) in un’atmosfera totalmente irreale, dove tutti i miei pensieri non si concentravano sul fatto che avendo vinto la mia semifinale facendo il record del mondo ero diventato automaticamente il favorito della gara bensì sulla preoccupazione di non riuscire in un così breve intervallo di tempo a recuperare le energie spese nella semifinale, anche se in questa gara, avendo corso con estrema facilità e senza fatica, mi ero concesso il lusso di fare gli ultimi 30 metri sullo slancio, visto che ero nettamente in testa.
Ed infatti, invece di scendere in pista un’ora prima della finale per scaldare i muscoli facendo delle corsette e delle partenze, come si faceva normalmente, sono rimasto fino all’ultimo al fresco nello spogliatoio sfogliando persino il testo di chimica organica che mi seguiva durante le mie peregrinazioni sportive anche se, a dir la verità, con poco successo! Per esorcizzare, poi, le tensioni dei pochi minuti che precedono la partenza, avevo tranquillamente fatto gli auguri ai miei avversari come se la gara non mi appartenesse!
Infatti la mia concentrazione era rivolta soprattutto alla mia condotta di gara, non sprecare troppe energie all’uscita dalla curva per non “ingripparmi” , insomma la competizione era un mio fatto personale, gli altri erano comparse. E la gioia provata all’arrivo era semplicemente quella di aver svolto bene il mio compito senza aver nulla da rimproverarmi.
L’emozione l’ho provata sul podio ascoltando l’inno nazionale ed ho iniziato a rendermi conto di quello che avevo combinato quando ho cercato di uscire dallo stadio: se non ci fosse stato un gruppo di carabinieri che mi ha fatto da scudo sarei stato schiacciato dalla folla di persone che si era precipitata verso di me per congratularsi!
Tutto si è svolto come in un sogno. Eppure se fossi stato superstizioso (e continuo a non esserlo, sia ben chiaro!) avrei dovuto ricordarmi che alcuni mesi prima in piazza S. Marco a Venezia un colombo centrò con estrema precisione la mia folta (a quei tempi) chioma di capelli.
Ripensai a questa non gradita avventura veneziana quando guardai, alla televisione, la ripetizione della mia finale e sentii la voce del cronista: “Livio… Livio… è primo… un volo di colombi vola sopra di noi…”.
Era vero, lo schermo lo confermava: sul catino dello stadio Olimpico, proprio mentre noi finalisti dei duecento metri uscivamo dalla curva e entravamo nel rettilineo del traguardo, il cielo era solcato da uno stormo di colombe.
Una bella, poetica coincidenza e nulla più.
O forse un altro tocco magico, nel mio magico pomeriggio romano di quarantacinque anni fa.
Livio Berruti
Medaglia d’oro olimpica nei 200 metri piani
Roma 1960