Si potrebbe anche dire che la storia dell’umanità sia una lunghissima, ininterrotta ricerca d’espedienti per trovare come fare, senza faticare. La risposta per adesso è la stessa: il (mio) lavoro lo farò fare a un altro. Si è partiti con gli animali, ma il salto agli uomini è stato quasi istantaneo; poi sono arrivati strumenti e attrezzi, infine le macchine. Fino alla cosiddetta Quarta Rivoluzione Industriale, vale a dire per almeno diecimila anni, la rincorsa alle invenzioni scansa-fatiche riguardò quasi sempre e soltanto lo sforzo fisico. Dal trasporto del mammuth abbattuto e dei blocchi di calcare per la tomba del Faraone, siamo arrivati alle gru meccaniche che impilarono le barre metalliche della Tour Eiffel o alle talpe d’acciaio in azione perforante della crosta terrestre.

Oggi che è pieno Antropocene, evochiamo AI e ChatGpt per finalmente dispensare da sovrumani sforzi il nostro cervello (quando ancora ce lo lasciano accendere). In passato, l’eccesso di zelo o creatività anti-sfacchinata giunse alla generazione fantastica: l’infaticabile bestia tuttofare. Sulle Alpi, l’immaginario collettivo fu abitato per secoli da una chimera domestica bonaria, tanto famosa da non sfuggire a due insospettabili come Kant e Voltaire. È lo jumart o joumar, joumart, jumard, fino ai più italici gimero e giumerro.
La bestia nasceva dalla congiunzione carnale fra equino e bovino. Quanto il vento della passione avvinghiava un asino per una mucca o un toro per un’asina (meglio se una cavalla): dopo un imprecisato numero di mesi nasceva appunto il giumerro per noi, lo jumart per i francesi. Il nome ha etimologia illustre. Pierre Gardette nel suo Atlante Linguistico del Lionese (1950-56) lo rintraccia nel provenzale jumere, approdo delle storpiature millenarie alla parola greca Chímaira (Chimera), sentita nell’antica colonia ellenica di Marsiglia.
Altre ipotesi attribuiscono l’ascendenza da una declinazione del latino geminus (Ménage, 1694), dall’arabo jamal (cammello, Malan), dall’ebraico chamor (asino, Mistral). Lo jumart era prevalente in ambito alpino francese, ma diffuso in Italia (financo in Sardegna, come scrive Girolamo Merolla in Breve e Succinta Relatione del Viaggio nel Regno di Congo, 1682). In Val Pellice, a esempio, esso era conosciuto con il nome occitano gimérou.
Autore fra l’altro del Dizionario del Dialetto Valdese della Val Germanasca (ed. Torre Pellice, 1973), Teofilo Pons azzarda l’origine del termine dall’antico popolo dei Jemerii o Gemerii, presente nelle valli pinerolesi del Chisone, forse in basso Pellice. Essi sono citati nell’iscrizione delle tribù confederate a Roma sull’Arco ad Augusto, elevato per volere di re Cozio tra il 9 e 8 a.C. a Susa. Tuttora esiste la frazione Gemerello fra Cavour e Campiglione.
C’è pure chi si è avventurato nell’ipotesi che Alessandro Magno montasse in Bucefalo un antico giumerro acquistato per il figlio da Filippo, allo strabiliante prezzo di 13 talenti (Aulo Gellio, Noctes Atticae, Libro V, 2), circa un milione e mezzo di euro attuali. Meno nobile era la descrizione del giumerro per Jean Léger (Histoire générale des églises Evangéliques des Vallées de Piémont ou Vaudoises, 1669):
“[…] Tra i domestici vi sono solo i Jumarres […] Questo animale è generato o da un Toro e da una Cavalla, o da un Toro e da un’Asina, questi sono più grandi e si chiamano Baf, e questi sono più piccoli e si chiamano Bif; questi hanno la mascella superiore molto più corta di quella inferiore, un po’ quasi come quella dei maiali ma in modo che i denti superiori sulla parte anteriore sono un pollice o due più indietro […] questi invece hanno le mascelle inferiori più lunghe, quasi come quelle delle lepri, o dei conigli, ma in modo che anche i denti inferiori siano più avanzati, che né l’uno né l’altro possono pascolare in campagna se non dove l’erba è così lunga che la tagliano con la lingua […] hanno testa e coda di manzo […] con poca elevazione nel punto delle corna […] considerando la loro mole sono più piccoli dei muli, mangiano poco e divorano la strada. Ho percorso fino a 18 leghe (80 km., n.d.r.) attraverso le montagne, il 30 settembre, con un simile Jumarre, molto più comodo che a cavallo.”

Sempre dalla Francia, giunge la descrizione di François A. de Garsault (Le nouveau parfait maréchal, 1741). Mentre egli discetta dei muli, li paragona ai joumar. “I joumar maschi e femmine sono ugualmente mostruosi, poiché provengono dal toro e dalla cavalla o dall’asina, o dall’asino e dalla mucca: queste due specie di animali non generano i loro figli, anche se apparentemente hanno tutto ciò di cui hanno bisogno per ciò. […] Il joumart è un animaletto poco più grande di un asino; ma estremamente forte, la testa somiglia molto a quella del toro, avendo la fronte molto ampia e la punta del naso grande, tanto che vedendola in faccia, crederemmo che sia un toro senza corna: i jourmars sono comuni nel Delfinato, sono usati solo per trasportare pesi. […] Quando vogliamo avere un mulo, diamo un’asina all’asino: poi quando è pronto a coprire, facciamo prendere il posto dell’asina a una giumenta in calore; lo stesso vale per fare i joumars: diamo una mucca al toro, o un’asina all’asino, poi diamo loro la cavalla, l’asina, o la mucca: il joumart viene dal toro con la cavalla, l’aneffe è diverso dal joumart proveniente dall’asino e dalla mucca, in quanto non ha denti anteriori nella mascella superiore.”
Il giumerro ha coda e testa di vacca, la fronte gobbuta anziché cornuta, la mandibola prominente. Lo zoccolo non è fesso, ha pelo liscio e ginocchia di bovino. È molto robusto, resistente alla fatica. Mangia e beve poco: strappa il foraggio con la lingua, non è sicuro che rumini. Bela come una capra. Il maschio preferisce unirsi alla cavalla, invece che alla sua femmina. La femmina è violenta, se alza la coda e orina a distanza è segno di collera (da Shaw, 1738 e Bomare in Larousse 1866-1879).
Il biologo Lazzaro Spallanzani avvalorava le osservazioni del collega d’Oltrape Bourgelat, per cui esse “[…] non lasciano spazio a dubbi circa l’esistenza di jumarts, ibridi derivanti dall’incrocio tra un asino e una mucca, o tra un toro e una cavalla o una ginestra […]” (Expériences pour servir a l’histoire de la génération des animaux et des plantes, 1785, p. 219). Sul calendario repubblicano 1792, il giorno 15 di Messidor (3 luglio) era chiamato Jumart. Il sostantivo jumart appare ancora nel Dizionario dell’Accademia di Francia del 1798.
Ci sono poi testimoni anche più illustri. Nelle sue memorie di viaggi francesi, il filosofo John Locke racconta quando ne vide uno a Parigi all’Accademia di Equitazione del signor Salomon de Foubert. Voltaire accetta la sua esistenza (Voltaire 1792, p. 200), lo stesso avrebbe fatto Immanuel Kant.

Il mito del giumerro resistette a lungo: alle soglie del XX° secolo, il naturalista Karl Ackermann affermava la presenza dello scheletro di uno jumart al Musée Fragonard d’Alfort in Francia (Vereins für Naturkunde zu Kassel, 1898, p. 74). In Piemonte ci sono testimonianze anche più recenti del giumerro (La Beidana, n. 27/1996, ed. Centro Culturale Valdese Editore). Dal 1902 al 1929, tale Giacomo Peyronel detto Coulin teneva un gimérou: “Era piccolo, col muso corto, la mandibola sporgente, poco somigliante all’asino”. Aldo Peyran di Campo la Salza, classe 1932, ricordava che “un gimérou veniva regolarmente da Balsiglia ad arare i campi del villaggio, quando ero ragazzo. Più piccolo dei muli […] Aveva una forza incredibile […] ma era matto come una capra.” L’esemplare fu venduto intorno al 1950, quando i proprietari si trasferirono a Pinerolo. Il compaesano Guido Peyran aggiungeva che un altro gimérou fosse appartenuto a tale Bar Jan Galdou della Borgata Rouchas.
Lo jumart incarnò per secoli il sogno di ogni contadino, muratore o altro faticatore di braccia: l’animale forte, instancabile, a cui basta poca biada per campare e che fa lui il lavoro più duro. Solo un altro mostro poteva soppiantare il giumerro: la macchina a vapore. I primi colpi di piccone alla credibilità del mostro arrivarono fra gli altri da Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon (1707-1788). Seguirono coorti di zoologi in tutto il XIX° secolo. Nel XX° il giumerro estinse dalla nostra mente, salvo qualche vaga reminiscenza locale, a esempio l’Associazione culturale e naturalistica Jumarre in Angrogna.
E se il giumerro, invece, si fosse evoluto sotto i nostri distratti occhi? Salutate le Alpi italo-francesi, il bizzarro e utile animale forse si è adattato al mondo virtuale dell’elettronica e informatica. Il mitico quadrupede si è adeguato ai tempi, si è smaterializzato anzi digitalizzato e ha cambiato nome.
Oggi lo chiamiamo tutorial: il testo e soprattutto il video a costo zero che ti insegna a fare, avere o essere la qualsiasi in elementari passaggi. Che tu debba mettere la tappezzeria, restaurare una cassapanca o disinstallare le fastidiose notifiche sul tuo smartphone, c’è pronto un giumerro, pardon tutorial pronto per te. Vuoi fare una Sachertorte, imparare il pashtun, destreggiarti con origami e kanzashi? Accedi, googla (oh Mon Dieu!), esegui il tuo tutorial.

Oggi lo e-giumerro italico lo chiamiamo Aranzulla: il Salvatore da ogni nostro problema, soprattutto informatico; perché i nostri veri problemi si manifestano in quell’irritante mondo lì. Ogni mattina un umano si sveglia e il suo cellulare non funziona più o il suo iPad non scarica più film. Allora chiedi a lui: tutto ti sarà svelato. Tu lo chiami (anzi, lo linki), lui ha la soluzione, anzi le soluzioni.
Il dominio Aranzulla.it risponde a oltre 8.000 quesiti tecnologici. Nell’agosto 2024 è posizionato al rank mondiale 6074 nel traffico web, al 158 in Italia dov’è al secondo posto nella categoria Informatica, Elettronica e Tecnologia. Nello stesso mese, le visite totali sono state pari a 13,7 milioni di accessi (fonte: similarweb.com, ovviamente suggerita dal nostro e-giumerro). A questo punto è ovvio che esista anche il tutorial che ci spiega Come essere Salvatore Aranzulla, probabilmente generato dopo avere letto Come si fa un tutorial sul sito del Salvatore. Più giumerro di così.