Una giornata in montagna

Io normalmente stavo a Torino, in collegio, a quel tempo. La mamma, approfittando di alcuni giorni di vacanza aveva deciso, per premio, di portarmi con sé a ritirare le nostre quattro mucche, trasferite per la stagione estiva presso un malgaro, nostro conoscente, all’alpe Gias Trapet, sopra Forno Alpi Graie.

In quegli anni mamma era ancora magra e snella e saliva spedita col suo passo da montanara, incurante del sole del mattino. Io, qualche passo indietro, arrancavo sudando con un fiatone che sembrava dovessi esalare l’ultimo respiro da un momento all’altro. Lei di tanto in tanto si fermava per farsi raggiungere rivolgendomi uno sguardo tra il sollecito e il compassionevole, poi diceva, come rivolta a se stessa: – non hai fiato, l’aria di Torino non è mica tanto buona!

Come dio volle, giungemmo a sto benedetto alpeggio accolti dall’abbaiare dei cani, richiamati blandamente dal padrone, con i figli e i garzoni che guardavano di sottecchi appoggiati ai bastoni, mentre le donne uscivano fuori dalla casa bassa e scura per salutare, asciugandosi nel grembiule le mani bagnate.

La valle sottostante si stendeva come vista da un grande balcone. Mangiammo in una tavolata davanti a casa, polenta con latte, burro e formaggio. La compagnia era allegra ma si vedeva che a comandare era il padre, quello che ci aveva salutati per primo, gli altri andavano dietro alle sue battute. Da bere c’era l’acqua della sorgente ma anche dei generosi bottiglioni di barbera. Mamma, abituata a trattare con allevatori e contadini, beveva il suo vino senza battere ciglio. A me, che il vino in collegio non lo davano mai, ogni sorso era una pena ma, per non dare a vedere, mi forzai a finire il mio bicchiere.

Passammo il pomeriggio chiacchierando mentre che le mucche si saziavano al pascolo poi, salutati e ringraziati tutti calorosamente, mia madre si avvicinò alle sue bestie, le chiamò per nome, le accarezzò sul muso e le trasse fuori dalla mandria. Loro la seguivano, combattute tra l’affetto per la padrona e la nostalgia del posto, comunque cominciammo a scendere inseguiti dalla voce del malgaro che richiamava i cani, non convinti di farci portar via le mucche.

Il sole si avvicinava al tramonto mentre scendevamo lungo il sentiero più o meno in fila indiana, ogni tanto una mucca allungava il muso per prendere sui bordi i ciuffi d’erba più rigogliosi, come a portarsi un ultimo ricordo della vacanza che stava finendo. Ma con la vacanza finiva anche il giorno, noi stavamo scendendo lentamente, non si poteva andare più veloci ma il tempo passava. Così quando giungemmo sui prati sopra le grandi balze di roccia che strapiombano fino a valle, cominciò a scendere la nebbia e la traccia del sentiero, che in quel tratto correva pianeggiante, si confondeva con varie altre tracce parallele, fatte dalle mandrie durante i precedenti pascoli. In poco tempo la nebbia divenne così fitta che a distanza di pochi metri facevamo fatica a vederci tra noi. A quel punto mia madre si fermò.

Non possiamo proseguire, siamo sopra le balze se sbagliamo sentiero, e io non so se siamo ancora su quello giusto, potremmo trovarci nella condizione di non poter più tornare indietro.
Non possiamo mica stare qui, mamma, cerchiamo di passare lo stesso.
No, ascoltami, non possiamo proseguire. Se finiamo su una placca di roccia, le mucche non possono girarsi, cadono nel precipizio, senza contare che potremmo cadere anche noi.
Cosa vuoi fare allora?
Torniamo indietro adesso. Poco fa siamo passati davanti a una stalla vuota, tu starai lì con le bestie, io scendo in paese, cerco una guida del posto e vi faccio tornare a prendere.
Ma puoi cadere anche tu nella nebbia. Mica la conosci la strada.
Stai tranquillo, io non cado. So sempre come trovare il sentiero ma dobbiamo sbrigarci prima che venga notte.
Vinte le mie deboli resistenze, tornati indietro per una decina di minuti, trovammo la stalla dove entrammo io e le quattro mucche, lei chiuse la sgangherata porta di assi e se ne andò nella nebbia.

Le mucche non mi conoscevano, se mi avvicinavo si muovevano, la stalla era piccola, qualcuna muggiva perché voleva uscire. Stetti fermo contro il muro e loro si calmarono. Dentro la stalla ormai filtrava una debole luce, mi sedetti per terra nel mio angolo con la testa appoggiata sulle ginocchia, pensavo a mia madre che avanzava nella nebbia sopra le rocce a strapiombo – e se cade? No, è brava, è tornata tante volte con la nebbia dalle rocce del Civrari. E quanto tempo ci metterà a scendere? E troverà qualcuno da mandarmi incontro? Nella confusione di questi pensieri, senza accorgermi mi addormentai. Mi svegliai di soprassalto al raspare della porta mentre l’uomo entrava deciso. Le maniche della camicia rimboccate al gomito, un cappello dalle larghe tese, una barba nera da alpino che lasciava intravedere la punta bianca dei denti quando accennava un sorriso con gli occhi vivaci. Si vedeva che era salito di corsa e di corsa sarebbe sceso, se avesse potuto. Pur muovendosi in fretta con energia, parlava con modi quasi gentili, mentre mi invitava a far presto e a seguirlo, che la notte incombeva. Infatti nella nebbia ormai la luce era poca ma all’uomo bastava per camminare spedito davanti alle mucche, orientandosi ad ogni masso, ad ogni curva di sentiero su un terreno che conosceva a memoria. Passammo sulle rocce a strapiombo, e lì effettivamente il sentiero era stretto e la luce era così scarsa che lo strapiombo più che vedersi si intuiva dalla nebbia sotto di noi, da dove arrivava un’aria fredda pungente sulla faccia, che però pian piano diradò la nebbia e l’ultimo tratto lo facemmo alla fioca luce delle stelle e al riverbero delle luci del paese. Quando giungemmo sulla piazza illuminata, mia madre mi venne incontro e la sua faccia pallida e contratta dalla tensione si distese in un gran sospiro.

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