Edizione 2008: presentazione di Giovanni Tesio

Che altro è una fiaba se non – come il mito – una ristrutturazione simbolica della realtà? Un modo di orientarsi nel mondo, di prendere confidenza con l’ordine dei rapporti, di leggere gli oroscopi che presiedono e marcano la nostra vita, di scrutarne (o, più semplicemente e ingenuamente, intuirne) i segni, le coincidenze, le digressioni, le geometrie, le iterazioni, le simmetrie, i ritorni. Di fiabe è vissuta la nostra infanzia, e non manco di credere che ancora ne viva – nonostante tutto – l’infanzia di oggi. Perché la fiaba resta legata all’infanzia come l’ago al suo filo.

La fiaba è la fonte della meraviglia e dello stupore, il luogo dove eroi umilissimi e cavalieri improbabili vincono la loro partita con la giocosa e paziente gravità dei giusti, con l’astuzia degli ingenui. È piena di luoghi sconosciuti e di tempi indeterminati, di reami insidiosi, di metamorfosi alchemiche, di utopie realizzate, di ossimori pacificati, di trabocchetti elusi, di angosce redente.

La fiaba è il giardino dei segreti che stanno rinserrati nei cuori inconsapevoli (e dunque tanto più sapienti) dei bambini, i soli che siano ancora capaci di avvertire il brivido sublime dell’ombra, la natura ibrida del lieto fine, del mostro domato, del sogno in cui consiste il suo groviglio, il suo “gliommero”, il suo nodo.

La fiaba è un ponte che lega il passato più remoto al futuro più oscuro. Viene dal bosco delle nostre paure e va verso la vertigine delle nostre (irriducibili) illusioni. Colora le tenebre e proclama l’indicibile. Sprofonda nel nostro inconscio e ne porta a galla la voce.

Quale che sia la strada che percorre, quali che siano le giravolte e i saliscendi a cui s’avvita, la fiaba è destino: procede verso il suo compimento con l’inesorabile passo del mistero. Come scrive meravigliosamente Cristina Campo nel libro dei suoi meravigliosi Imperdonabili: “Inscrutabile e soave, essa aspetta pazientemente che la rivelazione – che il destino – la colmi”.

Forse proprio per questo, Platone dice nel Fedro che quando è assalito dai ricordi infantili, viene percorso da un improvviso spavento.

La fiaba non viene mai sola. Che provenga dai “cunti” più dialettalmente colti (il Basile) o dalle epitomi più didattiche, dai travestimenti di corte (Charles Perrault) o dalle più romantiche officine popolari (Andersen o i fratelli Grimm); o ancora, che proceda dai più riusciti e nobili succedanei (Calvino), sempre riflette i costumi di una comunità e discende dalla notte dei tempi, dai cerimoniali di una drammaturgia rituale o – più rusticamente – dalla tradizione delle “vijà” (le veglie contadine nelle stalle) e persino dal commercio ambulante.

Inutile stare qui a stendere un catalogo di situazioni o di “funzioni”, a cui ha del resto egregiamente provveduto uno studioso come Propp.

Ma mi piace ricordare le sessanta Fiabe Piemontesi raccolte da Maria Luisa Rivetti, che l’editore Donzelli ha pubblicato qualche anno fa a cura di Gian Paolo Caprettini. Vi si va dalla testa che mangia le bambine alla mano (pelosa) che parla; dall’erba pimpinella che induce al fratricidio, alla ragazza brutta che lo sposo impicca e che tre fatine premiano per averle fatte ridere mostrando “persino il culo”; dalle storie concatenate di oggetti fatati e di azioni magicamente virtuose a quelle di animali totemici e di terzetti variamente assortiti e inevitabilmente segnati; dall’uomo che inganna il serpente che lo vuole mangiare al furbacchione minuzzolo come un pidocchietto che sculaccia la chiappa del lupo che l’ha mangiato: una festa (o forse un carnevale) di storie che s’impastano con sgraziata e ruvida felicità, diversa ma non inferiore a quella spremuta dai più alti e affermati monumenti.

Tutto questo è la fiaba e molto altro ancora. Buona ragione perché – nonostante la gramizia dei tempi, o forse proprio per questo – vi si insista con degna ostinazione. Un modo per resistere al consumarsi dei contesti tradizionali, un modo per ribadire l’importanza delle inversioni. E dunque non uno sterile esercizio di nostalgia, ma una necessità vitale.
Ovunque vi sia un bambino (o un adulto che ne conservi la traccia), la fiaba continua a dettare la sua magia, a custodire il fuoco di una discesa nel profondo. Il che significa la non mancabile – e salvifica – passione d’interiorità.
Ancora e sempre, sotto la superficie del visibile, il gioco delle combinazioni.

Quello che chiamiamo – giustappunto – destino.

Giovanni Tesio

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